sabato 6 agosto 2011

I don't like your ego style

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Nel fondo monocromo incomparabilmente nero davanti al quale la tua vita ha da tempo iniziato a staccarsi sotto forma di figura vibrante, quelli che discendono verso pozzi  estranei non tornano indietro. Non si può, utilizzando un’altra penombra, esercitarsi alla visione nell’unica penombra che ci riguardi. Non esiste altro cammino che quello consistente nell’iniziare dal proprio monocromo nero. Quando si ha a che fare con quest’ultimo, si capisce subito che la vita è più profonda dell’autobiografia. La scrittura non affonda mai troppo nel nostro nero. Non possiamo mettere per iscritto ciò che siamo all’inizio.
Può esistere una sostanza che è simultaneamente una sensazione?
Esiste un massiccio montagnoso che sia gravido di qualcosa di diverso dalla roccia? Pensieri estranei, esalazioni di volte scure, che paiono far parte del genere di problemi sui quali meditano da millenni, senza progressi, i faraoni morti, nelle loro camere. Meditazioni di mummie, riflessi nei minerali, rimuginare senza soggetto.

giovedì 4 agosto 2011

to stare 12

Confessioni


adattamento alla temperatura.
Berlino 4 agosto 2011.

giovedì 21 luglio 2011

ANIMAUT


Cognitarian Subjectivation

Recent years have witnessed a new techno-social framework of contemporary subjectivation. And I would like to ask whether a process of autonomous, collective self-definition is possible in the present age. The concept of “general intellect” associated with Italian post-operaist thought in the 1990s (Paolo Virno, Maurizio Lazzarato, Christian Marazzi) emphasizes the interaction between labor and language: social labor is the endless recombination of myriad fragments producing, elaborating, distributing, and decoding signs and informational units of all kinds. Every semiotic segment produced by the information worker must meet and match innumerable other semiotic segments in order to form the combinatory frame of the info-commodity, semiocapital.
Semiocapital puts neuro-psychic energies to work, submitting them to mechanistic speed, compelling cognitive activity to follow the rhythm of networked productivity. As a result, the emotional sphere linked with cognition is stressed to its limit. Cyberspace overloads cybertime, because cyberspace is an unbounded sphere whose speed can accelerate without limits, while cybertime (the organic time of attention, memory, imagination) cannot be sped up beyond a certain point—or it cracks. And it actually is cracking, collapsing under the stress of hyper-productivity. An epidemic of panic and depression is now spreading throughout the circuits of the social brain. The current crisis in the global economy has much to do with this nervous breakdown. Marx spoke of overproduction, meaning the excess of available goods that could not be absorbed by the social market. But today it is the social brain that is assaulted by an overwhelming supply of attention-demanding goods. The social factory has become the factory of unhappiness: the assembly line of networked production is directly exploiting the emotional energy of the cognitive class.
I wish to pinpoint the problem of organic limits, which is often eclipsed by an emphasis on the limitless potential of technology. We should speak of technology in context, and the present context of technology is culturally oriented towards economic competition. Info-producers are neuro-workers. Their nervous systems act as active receiving terminals. They are sensitive to semiotic activation throughout the entire day. What emotional, psychic, existential price does the constant cognitive stress of permanent cognitive electrocution exact? The acceleration of network technologies, the general condition of precariousness, and the dependence on cognitive labor all induce pathological effects in the social mind, saturating attention time, compressing the sphere of emotion and sensitivity, as is shown by psychiatrists who have observed a steep increase in manic depression and suicide in the last generation of workers.
The colonization of time has been a fundamental issue in the modern history of capitalist development: the anthropological mutation that capitalism produced in the human mind and in daily life has, above all, transformed the perception of time. But we are now leaping into the unknown—digital technologies have enabled absolute acceleration, and the short-circuiting of attention time. As info-workers are exposed to a growing mass of stimuli that cannot be dealt with according to the intensive modalities of pleasure and knowledge, acceleration leads to an impoverishment of experience. More information, less meaning. More information, less pleasure.
Sensibility is activated in time. Sensuality is slow. Deep, intense elaboration becomes impossible when the stimulus is too fast. A process of desensitization is underway at the point where electronic cyberspace intersects with organic cybertime. The prospect of individual subjectivation, and of social subjectivation, has to be reframed in this context, and a series of radical questions arise: Is it still possible to envisage a process of collective subjectivation and social solidarity? Is it still possible to imagine a “movement” in the sense of a collective process of intellectual and political transformation of reality? Is it still possible to forge social autonomy from capitalist dominance in the psycho-economic framework of semiocapitalism?


Franco Berardi Bifo

domenica 3 luglio 2011

To stare 11

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Una seconda natura?

Kinkaleri - Lo spettacolo è una donna/uomo pericolosa/o. L’estate ci lascia stare, ci guarda. Abbiate fiducia in noi. Ci sono minuti di recupero; prima della fine della partita tutto può succedere e della prossima non sappiamo niente. Dispersione delle cose. Fine indefinita, nessun finale vero. La morte necessaria. Una sua luce autonoma. Non lasciamoci soli. Ancora un moto di bellezza che ci possa travolgere, che ci porti via trascinati e la visibilità sia affidata agli sforzi per non finire lontano. La paura di lasciare la presa anche se inevitabile.
Un luogo di passaggio. Involucri, elementi che contengono altri elementi. Mettere da parte le cose. Sono gli anni della verità (finiscila con gli assoluti!) questi, inginocchiati e silenziosi. Prima l’immagine poi il movimento, come in un film cinese dove si rubano biciclette.
Uno sprofondamento livido nel volume addensato di uno spazio ostinato, un male che ostruisce le circolazioni, una replica che non si occupa di dialettica. E non parla della mia generazione. O forse sì, per farti paura. Non ha niente a che vedere con la biografia di Nero Lucius Domitius Claudius, l’imperatore romano vilipeso dagli storici del tempo. La storia è scritta dai vincitori. Chi perde è destinato a essere oltraggiato. Tutte le interpretazioni che muoiono, evviva!


Kinkaleri - Uno spettacolo costruito in due atti separati e indipendenti, frutto di tre studi.
Il titolo: “Nerone” è solo l’invocazione al teatro, al gioco dei multipli impossibili tra bambini, e alla improvvisa evocazione di un nome Imperatore che suonava la cetra e faceva l’attore. Un luogo comune per entrambi gli atti: una stanza dalle pareti nere e dal pavimento nero fatto di strati diversi e, sospesi sulla sinistra, in alto, quattro plafoniere al neon. Per la prima volta Kinkaleri dispone di interpreti a concretizzare l’immagine: due uomini e due donne. Nessuna possibilità di pensare ad altro se non all’umanità intera coinvolta nella consapevolezza della morte, della finitezza.
Due scritti, monologhi, di Rainer Werner Fassbinder sulla disperazione, il coraggio e l’utopia, sono la risposta, dolcissima e terribile, trovata al desiderio di dialogare con un momento dell’esistenza che affrontiamo: soli.


Kinkaleri - Nerone. Abbaiano sulle due facce di un disco un cane alto e una cagna castana. Due parti: uno spettacolo. Forse un’ora e mezza di attesa al tuo posto nel silenzio duro, dentro e fuori, da una soglia all’altra. Nell’età di mezzo immersi nell’inadeguatezza politicosentimentale dell’epoca, di questa come di tutte quelle passate. Voglio dirti: tutta la mia solitudine, tutto il mio coraggio, tutta la mia ansia, tutti i miei conti scoperti, tutta la mia felicità, tutta la mia bellezza, tutto il mio malumore, tutto il mio amore, tutto il mio peso, tutta la mia nudità, tutta la mia speranza, tutto il mio ascendente, tutto della mia miseria, tutto della mia morte, tutto dei miei rivestimenti, tutto dei miei strati, tutto sul basket, tutto sui neon, tutto sulla mia luce, tutto sulle toilette donne, tutto sulle toilette uomini, tutto sul volley, tutto sui miei cani, tutto sul mio silenzio, tutto sulla mia soglia. Un luogo di passaggio. Uno spartiacque delle nostre vite comprese in un involucro. Piani stropicciati che coprono volumi. Mettere da parte le cose. Bisogna essere oggettivi ora. Parlare della morte e del senso insensato delle solitudini. Del tempo biologico e del tempo delle immagini. Tutto passa: te ne rendi conto?


Il II° studio per Nerone

Kinkaleri - Nasce da una settimana di residenza a CANGO con una selezione di tre giorni tra quindici persone e la scelta successiva di due attori. Due uomini in divisa da basket, una divisa sportiva come uniforme, due figure che si muovono in un rettangolo di linoleum nero collocato nello spazio e illuminato debolmente da un lato con alcuni neon; due uomini, un corpo vivo a terra come se fosse morto ed un altro che in posizione verticale dichiara la possibilità del movimento portando fino alle estreme conseguenze la sua fragilità.
Un colore, da una condizione, da un dato di fatto, dalla volontà di abbandonare su una scena il riflesso della propria immaginazione, il solo unico desiderio è piegarsi alla necessità di un’azione costretta, come l’essere incastrato, e dove il lusso più dinamico è la propria immobilità, l’ho gia detto? Le cose si ripetono.
Rebus odierno, immaginario collettivo, disastro planetario, le lacrime mi solcano le guance, hai un fazzoletto nero?



Rebus odierno

- Dopo tante domande in tanti anni, domande inevitabili, umanamente
desidero ricominciare a creare delle immagini.
Desidero desiderare ciò che non posso avere, senza più credere nella mia salvezza.
Il desiderio è apertura al mistero, alla vita e poi alla morte. Essere nell’atto, svanire nell’immediato dell’atto.
Non lasciare traccia alcuna.
Essere tutto in un attimo. Disperdersi nella nudità del desiderio.
Allora, niente discorso, niente pagina scritta, niente souvenir, niente protesi, niente soccorso, niente appoggio.
Lasciare che il segno/corpo perda tutti i sensi possibili, che diventi numero, che entri nel calcolo, nella matematica, un corpo dai sensi nudi privo di punti di riferimento. Forse un ritorno verso l’astrazione? ma cosa è astratto?

…” I Greci hanno inventato l’astratto per aver avuto l’audacia di denudare gli dei.
I Greci hanno inventato il numero e la geometria per aver avuto la strana idea di questa nudità”…
Essere una pura capacità, che invenzione meravigliosa, fare coincide con il pensare.
Il corpo è prima di tutto “esposto”, è una traccia che ogni volta si proferisce al di là di qualsiasi significazione, è materia che si trasforma, è la “cosa” che siamo, è il contatto con la materialità dell’esserci. L’unica esperienza possibile che c’è data di sentire risiede fuori del linguaggio della comunicazione, in un allontanamento definitivo dal senso, ancora e per sempre lì dove la luce non batte, in quel limite oscuro che ogni esistenza conosce come origine e fine, esposti in uno spazio e in un tempo tutti uguali e tutti diversi.
Un sentire dunque che non è mai discorso ma un pura esteriorità dispiegata.
Riconoscere questo limite implica risiedere in uno scandalo.
Siamo tutti diventati degli accumulatori d’immagini, ma per uno strano paradosso
non esistono più desideri, nessun inciampo è previsto nell’esistenza dell’uomo futuro.

Il segno artistico si costituisce per sua natura in un margine, è un rovesciamento, non un movimento rivoluzionario ma un’uscita violenta dalla scena, un voltare le spalle a tutti i possibili “si” e i possibili “no”, è un immancabile autogol, una piega dell’essere in cui percepire e assecondare il pericolo della finzione e del simulacro. Nella grazia di un corpo che si rivela senza “senso” si raccoglie la possibilità di ri-convertire il mondo all’universo dell’immaginario - Cristina Rizzo.


To stare 10

1

On the Revolutionary Earth1
A Dialectic in Territopic Materialism

Reza Negarestani
(written for Dark Materialism, Kingston University of London)


To reactionaries... 
(the everyday Copernican man)

The traumatic force catches up and, as it were, shakes the ego down from the high tree or the
tower. This is described as a frightening whirlwind, ending in the complete dissolution of
connexions and a terrible vertigo, until finally the ability, or even the attempt, to resist the force
is given up as hopeless, and the function of self-preservation declares itself bankrupt. This final
result may be described or represented as being partially dead. In one case such ‘being dead’
was represented in dreams and associations as maximal pulverization, leading to finally complete
de-materialization. The dematerialized dead component has the tendency to drag the not yet dead
parts to itself into non-existence, especially in dreams (particularly in nightmares). 
(Sandor Ferenczi)2

What follows is a perilous venture to pursue what Freud refers to as ‘an extreme line of thought’ whose
only vocation is to ‘disturb the peace of this world in still another way’.3 We begin to construct, step by
step, a territopic model of materialism in which the geophilosophical synthesis between the history of the
human-citizen, the history of the state and the contingent natural history of the earth is no longer traceable
to the somatic integrity of the earth or what can be identified as an axiomatically veritable interiority.
Instead, we argue, that the geophilosophical synthesis (of the modern man qua citizen) is conditioned by a
geocosmic concatenation of traumas or cuts in the axiomatic fabric of interiorities. Since there is no single
or isolated psychic trauma (all traumas are nested), there is no psychic trauma without an organic trauma
and no organic trauma without a terrestrial trauma that in turn is deepened into open cosmic vistas. Here,
trauma should be understood not as what is experienced but as a form of cut made by the real or the
absolute in its own unified order; a cut that brings about the possibility of a localized horizon and a
                                                
1
 This essay could never have been written were it not for the never-ending explosive supplies of Manabrata Guha,
Robin Mackay and Gabriel Catren.   
2
 Sandor Ferenczi, Final contributions to the problems and methods of psychoanalysis (Reprinted London: Karnac
Books, 1994), originally published in 1930, 222-223.
3
 Sigmund Freud, Beyond the Pleasure Principle (London: W.W. Norton & Company, 1961), 31n.2, and
Introductory Lectures on Psychoanalysis (New York: W.W. Norton & Company, 1977), 353.

ATLAS PORNO

DANCE

ANIMAUT

sabato 18 giugno 2011

To stare 9

http://latecomerforerunner.blogspot.com/2011/05/blog-post_26.html

To stare 8


Se il corpo è politico, deve necessariamente essere questo corpo. Siamo nel regno della certezza visibile, in una relazione immancabilmente esistenziale con il momento. Nessuna metafisica proietta questo corpo, nessuna teleologia ne conforta lo stato di degradabilità. Eppure la scena, se pensiamo alla scena di AL, nel tempo stesso della sua esposizione, evidentemente sfugge al presente. È in questo punto che l’happening, altro dispositivo stilistico che C&A utilizza in parte, si arricchisce di nuove informazioni problematizzando sia quel corpo sia le linee di confine tra scena e fuori-scena. Tra potenziale di esposizione e potenziale di realtà. Nulla sembra congelarsi e rapprendersi in una sintesi definitiva e compiuta. Tutto è mobile e, spesso, corre. C’è una democrazia allargata. Una cittadinanza sans papiers. Nessuno è intruso. Tutti sono intrusi. Se il corpo è politico, questa è l’unica possibile zona franca dello spettatore: tra l’essere intruso e non esserlo. Tra una delicata intimità e una struggente lontananza.

Qual è il potenziale del cittadino, dunque? Starà nel togliersi e nello spostarsi indefinito dalla sfera del pubblico alla sfera del privato? E nel teatro, questo equivarrà a mostrare un corpo in stato di appetitus e d’amore? Sarà questa la strada?: la ritirata della cittadinanza verso il corpo?


III
L’industria culturale pone una frustrazione giovale al posto del dolore, che è presente nell’ebbrezza come nell’ascesi. Legge suprema è che non si pervenga mai a quello che si desidera, e proprio di questo si deve ridere e contentarsi. La frustrazione permanente… E’ questo l’effetto di tutto l’apparato erotico.

I cataloghi del corteggiamento possono annoverarsi sicuramente tra quei dispositivi della manipolazione e del potenziale di esposizione che rimandano a un’erotica, una serie di norme e regole del corteggiamento. Ma come sviluppare un discorso sull’erotica della scena? Certo qui è in gioco lo schema ripetitivo e lacerante della seduzione. Uno di questi me lo indica la stessa Antonjia in una delle nostre conversazioni. Si tratta della danza dell’accoppiamento messa in atto dall’uccello del paradiso, volatile che vive nella foresta pluviale. Durante il corteggiamento spalanca a tal punto il suo corpo che questo non si riconosce più, tanto da divenire come un grande ventaglio in uno stato di artificio totale e quasi astratto. In questa incredibile e senza limiti esposizione del corpo che seduce, l’animale danza.

Come evitare di fermarsi alla semplice enumerazione di un catalogo di gesti? Come impedire che la danza sia soltanto questo? Come non ricadere nelle trappole del dominio, del dominio di questo corpo? Come non invischiarsi nuovamente e ulteriormente con il potere? Come eludere, corteggiandola, le lusinghe dell’industria culturale? E, poi, bisogna necessariamente evaderne?


IV
Le caractère de la fusion propre à la grâce, c’est d’être intime mais antinomique. C’est une fusion paradoxale. Circonscrite de l’aurore de l’effort à la disparition du pouvoir … le pouvoir vrai, qui est le sien, n’est que le pouvoir de l’aisance.

C’è un termine che aleggia su questo scritto. Un termine o un concetto che supererebbe molti dei nodi di questa scena e di questo corpo. Si scavalca danzando il legaccio troppo facile con il potere. Si tratta della grazia che, fuori dall’istanza teologica, riguarda una certa attitudine dell’opera (ma anche dell’individuo) verso l’esterno e, anche, verso la norma. Caratterizzata da una certa efficace organizzazione della forza e della libertà delle risposte di fronte alle gerarchie precostituite. La grazia, già riconosciuta da Bergson come parabola dell’instabile, è una categoria di confine, lontana dalla perfezione sicura e statica del Bello. Essa non è solo la bellezza in movimento, ma è l’incontro paradossale di un risparmio, di un abbandono e di una rivelazione di potenza che sorprende e supera le nostre attese, secondo i principi di un’estetica della sovrabbondanza, del successo miracoloso, del rischio e dello slancio. La grazia sembra trascendere la materia da cui essa stessa dipende, riuscendo a tenere unite in paradossale armonia le sue contraddizioni senza confonderle.
Stiamo sfiorando e vagheggiando uno s(S)tato utopico? Una new arcadia con pastori e piante esotiche finte a fare da paesaggio a un’inedita città quando questa stiamo sfuggendo?  Lucia Amara.

giovedì 16 giugno 2011