domenica 3 luglio 2011

To stare 11

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Una seconda natura?

Kinkaleri - Lo spettacolo è una donna/uomo pericolosa/o. L’estate ci lascia stare, ci guarda. Abbiate fiducia in noi. Ci sono minuti di recupero; prima della fine della partita tutto può succedere e della prossima non sappiamo niente. Dispersione delle cose. Fine indefinita, nessun finale vero. La morte necessaria. Una sua luce autonoma. Non lasciamoci soli. Ancora un moto di bellezza che ci possa travolgere, che ci porti via trascinati e la visibilità sia affidata agli sforzi per non finire lontano. La paura di lasciare la presa anche se inevitabile.
Un luogo di passaggio. Involucri, elementi che contengono altri elementi. Mettere da parte le cose. Sono gli anni della verità (finiscila con gli assoluti!) questi, inginocchiati e silenziosi. Prima l’immagine poi il movimento, come in un film cinese dove si rubano biciclette.
Uno sprofondamento livido nel volume addensato di uno spazio ostinato, un male che ostruisce le circolazioni, una replica che non si occupa di dialettica. E non parla della mia generazione. O forse sì, per farti paura. Non ha niente a che vedere con la biografia di Nero Lucius Domitius Claudius, l’imperatore romano vilipeso dagli storici del tempo. La storia è scritta dai vincitori. Chi perde è destinato a essere oltraggiato. Tutte le interpretazioni che muoiono, evviva!


Kinkaleri - Uno spettacolo costruito in due atti separati e indipendenti, frutto di tre studi.
Il titolo: “Nerone” è solo l’invocazione al teatro, al gioco dei multipli impossibili tra bambini, e alla improvvisa evocazione di un nome Imperatore che suonava la cetra e faceva l’attore. Un luogo comune per entrambi gli atti: una stanza dalle pareti nere e dal pavimento nero fatto di strati diversi e, sospesi sulla sinistra, in alto, quattro plafoniere al neon. Per la prima volta Kinkaleri dispone di interpreti a concretizzare l’immagine: due uomini e due donne. Nessuna possibilità di pensare ad altro se non all’umanità intera coinvolta nella consapevolezza della morte, della finitezza.
Due scritti, monologhi, di Rainer Werner Fassbinder sulla disperazione, il coraggio e l’utopia, sono la risposta, dolcissima e terribile, trovata al desiderio di dialogare con un momento dell’esistenza che affrontiamo: soli.


Kinkaleri - Nerone. Abbaiano sulle due facce di un disco un cane alto e una cagna castana. Due parti: uno spettacolo. Forse un’ora e mezza di attesa al tuo posto nel silenzio duro, dentro e fuori, da una soglia all’altra. Nell’età di mezzo immersi nell’inadeguatezza politicosentimentale dell’epoca, di questa come di tutte quelle passate. Voglio dirti: tutta la mia solitudine, tutto il mio coraggio, tutta la mia ansia, tutti i miei conti scoperti, tutta la mia felicità, tutta la mia bellezza, tutto il mio malumore, tutto il mio amore, tutto il mio peso, tutta la mia nudità, tutta la mia speranza, tutto il mio ascendente, tutto della mia miseria, tutto della mia morte, tutto dei miei rivestimenti, tutto dei miei strati, tutto sul basket, tutto sui neon, tutto sulla mia luce, tutto sulle toilette donne, tutto sulle toilette uomini, tutto sul volley, tutto sui miei cani, tutto sul mio silenzio, tutto sulla mia soglia. Un luogo di passaggio. Uno spartiacque delle nostre vite comprese in un involucro. Piani stropicciati che coprono volumi. Mettere da parte le cose. Bisogna essere oggettivi ora. Parlare della morte e del senso insensato delle solitudini. Del tempo biologico e del tempo delle immagini. Tutto passa: te ne rendi conto?


Il II° studio per Nerone

Kinkaleri - Nasce da una settimana di residenza a CANGO con una selezione di tre giorni tra quindici persone e la scelta successiva di due attori. Due uomini in divisa da basket, una divisa sportiva come uniforme, due figure che si muovono in un rettangolo di linoleum nero collocato nello spazio e illuminato debolmente da un lato con alcuni neon; due uomini, un corpo vivo a terra come se fosse morto ed un altro che in posizione verticale dichiara la possibilità del movimento portando fino alle estreme conseguenze la sua fragilità.
Un colore, da una condizione, da un dato di fatto, dalla volontà di abbandonare su una scena il riflesso della propria immaginazione, il solo unico desiderio è piegarsi alla necessità di un’azione costretta, come l’essere incastrato, e dove il lusso più dinamico è la propria immobilità, l’ho gia detto? Le cose si ripetono.
Rebus odierno, immaginario collettivo, disastro planetario, le lacrime mi solcano le guance, hai un fazzoletto nero?



Rebus odierno

- Dopo tante domande in tanti anni, domande inevitabili, umanamente
desidero ricominciare a creare delle immagini.
Desidero desiderare ciò che non posso avere, senza più credere nella mia salvezza.
Il desiderio è apertura al mistero, alla vita e poi alla morte. Essere nell’atto, svanire nell’immediato dell’atto.
Non lasciare traccia alcuna.
Essere tutto in un attimo. Disperdersi nella nudità del desiderio.
Allora, niente discorso, niente pagina scritta, niente souvenir, niente protesi, niente soccorso, niente appoggio.
Lasciare che il segno/corpo perda tutti i sensi possibili, che diventi numero, che entri nel calcolo, nella matematica, un corpo dai sensi nudi privo di punti di riferimento. Forse un ritorno verso l’astrazione? ma cosa è astratto?

…” I Greci hanno inventato l’astratto per aver avuto l’audacia di denudare gli dei.
I Greci hanno inventato il numero e la geometria per aver avuto la strana idea di questa nudità”…
Essere una pura capacità, che invenzione meravigliosa, fare coincide con il pensare.
Il corpo è prima di tutto “esposto”, è una traccia che ogni volta si proferisce al di là di qualsiasi significazione, è materia che si trasforma, è la “cosa” che siamo, è il contatto con la materialità dell’esserci. L’unica esperienza possibile che c’è data di sentire risiede fuori del linguaggio della comunicazione, in un allontanamento definitivo dal senso, ancora e per sempre lì dove la luce non batte, in quel limite oscuro che ogni esistenza conosce come origine e fine, esposti in uno spazio e in un tempo tutti uguali e tutti diversi.
Un sentire dunque che non è mai discorso ma un pura esteriorità dispiegata.
Riconoscere questo limite implica risiedere in uno scandalo.
Siamo tutti diventati degli accumulatori d’immagini, ma per uno strano paradosso
non esistono più desideri, nessun inciampo è previsto nell’esistenza dell’uomo futuro.

Il segno artistico si costituisce per sua natura in un margine, è un rovesciamento, non un movimento rivoluzionario ma un’uscita violenta dalla scena, un voltare le spalle a tutti i possibili “si” e i possibili “no”, è un immancabile autogol, una piega dell’essere in cui percepire e assecondare il pericolo della finzione e del simulacro. Nella grazia di un corpo che si rivela senza “senso” si raccoglie la possibilità di ri-convertire il mondo all’universo dell’immaginario - Cristina Rizzo.


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